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Centre de recherches en histoire et épistémologie comparée de la linguistique d'Europe centrale et orientale (CRECLECO) / Université de Lausanne // Научно-исследовательский центр по истории и сравнительной эпистемологии языкознания центральной и восточной Европы

-- Giacomo DEVOTO : Prefazione» a G. Stalin : Il marxismo e la linguistica, Milano : Feltrinelli, 1968, p. 5-14. (Traduzione dal russo di Bruno Meriggi)

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Prefazione

        Approvo molto l'idea di tradurre in italiano le varie risposte date da Giuseppe Stalin in materia di linguistica, durante l'anno 1950: prescindendo, naturalmente, come prefatore, da qualsiasi apprezzamento nei riguardi del pensiero marxista. Esse sono interessanti per chiunque si occupi di problemi linguistici. La traduzione di Bruno Meriggi permette poi di valutare esattamente l'ingegnaccio, il buon senso (e talvolta anche la prolissità) di Giuseppe Stalin, in un campo di studî di cui fu a lungo digiuno) e mai divenne cultore vero e proprio.
        L'interesse di questa lettura parte da una affermazione fondamentale, ancorché negativa, per la quale la lingua, non sarebbe né base né sovrastrutturané qualcosa di intermedio (p. 17 sgg.). Tra la lingua russa dell’età di Pusˇkin e quella attuale ci sono sì differenze ma solo sporadiche; e comunque assolutamente sproporzionate rispetto al mutamento così della
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base della società russa, come delle diverse sovrastrutture giuridiche religiose culturali che ne sono derivate, Di un cambiamento di lingua non C’era alcuna necessità: con parole staliniane, « come si potrebbe distruggere la lingua esistente e creare, al posto suo, una lingua nuova… senza apportare l'anarchia nella vita sociale...» (p. 26). Aiuterò lo Stalin a uscire da questo negativismo, seguendolo passo passo. Per quanto riguarda la base, la connessione con la lingua è esclusa nettamente, perché ci sono paesi che hanno la stessa base economico-sociale e usano lingue diverse come la Ceco-slovacchia e la Romenia, e ci sono state secessioni come quella nordcoreana o nordvietnamita che non hanno infranto la comunità linguistica originaria. Per quanto riguarda gli strumenti di produzione, che non sono né base né sovrastruttura, una analogia sussiste certo nel senso che gli strumenti sono usati e rimangono validi, qualunque sia la base economico-sociale: proprio come le lingue. Ma la lingua è pia che strumento. Gli strumenti sono razionali e perfettibili nei limiti delle materie prime e della ingegnosità degli uomini. Le lingue son divenute perfette solo nel senso della storia, che ne ha levigato le asperità individuali; ma non sono razionalmente perfettibili.
        Non rimane altra via che considerare la lin-
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gua come una sovrastruttura, provvista di speciali caratteri, anormale, atipica. Sottopongo a quanti impiegano la terminologia marxista questa definizione.' la lingua è una sovrastruttura, che nasce esclusivamente attraverso un processo naturale di sedimentazione a ritmo lentissimo, e che si sviluppa sempre in relazione, ma sempre in ritardo rispetto allo sviluppo della base. La base economica della società schiavista nell'impero romano era diversa da quella dei piccoli agricoltori della prima età repubblicana. Le sovrastrutture erano pure diverse in fatto di cultura, religione e diritto. La lingua dell'età imperiale risente di questo mutamento, è immensamente più ricca di vocaboli, di strutture sintattiche.Ma è la stessa lingua, la latina, perché la tradizione linguistica è sì una sovrastruttura, ma a ritmo lento, refrattaria all'intervento dirigistico di un'autorità. Per le stesse ragioni la lingua non è propriamente classista, ma risente delle conseguenze delle differenze fra classi sociali. In questo senso, anche mettendoci da un punto di vista marxista, l'accusa dello Stalin a Nicola Marr, perché considera la lingua come sovrastruttura e come classista, dovrebbe essere attenuata e ridotta ad accusa piuttosto di semplicismo che di vero errore.
        La tesi di una sovrastrutturalità minore o
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tardigrada può avere conseguenze interessanti su un piano più generale. I teorici della non-violenza, o gli avversarî del giuridicismo potrebbero essere indotti a prendere come modello di svolgimento delle società umane, non già i bruschi mutamenti delle sovrastrutture istituzionali, culturali e religiose, ma i lenti impercettibili mutamenti delle sovrastrutture linguistiche: le quali sarebbero esempio dei movimenti naturali, invisibili e per ciò stesso sani, contro i mutamenti bruschi, innaturali, patologici, provocati dagli uomini e considerati invece come normali dai teorici della violenza in quanto «levatrice della storia.» Sulla base delle esperienze linguistiche, la non-violenza cesserebbe di essere atteggiamento sentimentale, per diventare dottrina.
        Le lingue sono destinate ad avvicinarsi o a divergere? La domanda è semplicistica, perché ogni lingua, per il fatto di essere tale, è sottoposta contemporaneamente a forze centrifughe e a centripete. Lo Stalin, in una comunicazione a una riunione di partito, aveva ammesso una volta che la unificazione della società su basi socialiste nel mondo intero, avrebbe avuto come conseguenza la unità linguistica. A questa tesi lo richiama un compagno. Lo Stalin ha buon
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gioco nel rispondere che la unificazione finale delle lingue è una ipotesi altrettanto legittima che quella di una universale diffusione dei sistemi socialisti (p. 97 sgg.). Nella attuale situazione, in cui esistono regimi capitalisti e nazionalisti, in contrapposizione con quelli socialisti, è ovvio che le lingue, già lente a risentire le conseguenze dei mutamenti di base, sono lontanissime da un movimento verso una eventuale unità; Se lo Stalin avesse potuto prevedere lo scissionismo all'interno dei sistemi socialisti come è avvenuto in Cina, ecco che avrebbe ancora accentuato il contrasto fra la teorica, ma per il momento anacronistica, considerazione per il processo di unificazione, e la necessità di considerare le lingue esistenti come destinate a mantenersi irriducibili, e anzi, attraverso le crescenti forze centrifughe, a divergere. Il rilievo è ancora più importante perché conduce alla conclusione impegnativa (p. 103): « Il marxismo è nemico di ogni dogmatismo.» Nicola Marr è il bersaglio dello Stalin non solo per la sua pervicace e dogmatica adesione al principio del fatale avvicinamento delle lingue. Esso presta il fianco ad altre critiche; richiamo l’attenzione del lettore su tre. La prima riguarda la distinzione fra lingua e pensiero, che lo Stalin rinfaccia al Marr come prova di « idealismo ». A parte la
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stranezza, per noi italiani avvezzi all'idealismo crociano e alla tesi fondamentale della identità di pensiero e espressione, a parte questo, è inevitabile per qualsiasi linguista distinguere tra pensiero ed'espressione per la ragione opposta: che noi abbiamo bisogno nello studio delle lingue di quel tanto di realismo che ci permetta di considerare i sistemi linguistici diversi od opposti fra di loro, senza per questo dedurne differenze organiche o razziali di pensiero fra le comunità che adoperano sistemi linguistici diversi. Se davvero il Marr distingue fra lingua e pensiero più di quel che non faccia lo Stalin o i linguisti tradizionali, non per questo deve considerarsi un idealista o un deviazionista rispetto agli schemi marxisti.
        Curiosa è anche l'altra accusa per la quale il Marr propenderebbe troppo per la semantica a scapito della grammatica, dal Marr accusata di formalismo. Premetto che la semantica allo stato puro ha le sue radici non nella linguistica ma nella psicologia, e che il linguista osserva soltanto la trasformazione della nebulosa primitiva, dalla quale i valori semantici, infiniti e indistinti, vengono estratti e sottoposti a violenza e inquadrati nelle strutture lessicali che via via si costituiscono. Proprio per questo i valori semantici sono portati dal cielo in terra e diven-
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tano enumerabili e intelligibili. Ma non vedo come nella attuazione pratica il Marr risenta o possa risentire dannosamente di quelle sue inclinazioni ideali.
        Devo infine dar torto allo Stalin, quando, in difesa della grammatica, afferma (p. 49) che essa è il risultato di un lungo lavoro di astrazione del pensiero umano. Non riesco a capire a quale processo di astrazione si riferisca il ragazzo che gioca e si intrattiene con i compagni, rispettando le convenzioni grammaticali del loro gergo, sulle quali non ha avuto modo di riflettere e alle quali inconsciamente aderisce. La grammatica è come la forma delle rocce alpine. Non è l'opera di uno o più pensatori, come i profili delle Alpi non sono l'opera di giganti appassionati di disegno geometrico, che maneggiano volumi e danno forme regolari alle rocce. I profili delle Alpi sono il risultato di un processo di levigazione da parte dei ghiacciai come la grammatica è il risultato di un processo di levigazione della storia, che ha uniformato in certe direzioni e contrapposto in certe altre.

        Se non è propriamente felice nella specificazione delle accuse, lo Stalin afferma però sul piano positivo amare verità: amare a tutti i neofiti che avrebbero voluto vedere nella linguistica
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novità altrettanto appariscenti come quelle che vedevano quotidianamente nella base economica, e nelle sovrastrutture anticapitalistiche. Di amare verità ne elenco qui cinque. La prima: non è vero che la lingua sia integralmente classista. Al massimo ci sono dialetti classisti (ma questi sono i gerghi): gli altri sono dialetti territoriali, determinati dalla geografia e non dalla classe sociale. Secondo: le strutture grammaticali, proprio perché sono le più refrattarie a mutamenti esterni, sono quelle che più provano, a favore o contro un rapporto di parentela linguistica. Terzo: il vocabolario non può essere preso come un blocco monolitico, ma si deve distinguere un «fondo» lessicale che si evolve a ritmo lentissimo, in confronto dell'insieme del «patrimonio» lessicale, che è più aperto alle influenze esterne e, aggiungo io, più vicino alla nozione classica di sovrastruttura. Quarto: l'incrocio ha grande importanza, ma non si ha mai la mescolanza alla pari. Normalmente, negli scontri fra lingue, si ha una lingua vincitrice e una vinta, sia pure a costo di gravi perdite: tale l'antico anglosassone che nel passaggio a inglese medio ha vinto, ma ha dovuto accettare enormi materiali francesi. Quinta e fondamentale verità è la rude rivalutazione della grammatica comparativa, che il Marr aveva osteggiato (ed
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era suo diritto), ma aveva anche accusato al solito di idealismo (e con questo passava dalla scienza alla demagogia).
        L’effetto di queste prese di posizione dello Stalin fu immediato. Già nell'estate del 1950, trovandomi con l'illustre turcologo ungherese Nemeth, ebbi ad apprendere che la prima lettera dello Stalin era stata per i linguisti delle democrazie popolari «una liberazione. »
        Non rimane così che il problema storico  delle circostanze che possono aver condotto lo Stalin a queste prese di posizione. Gli indizi sono due. La critica, così concentrata in una singola persona come Nicola Marr, e così associata a un deviazionismo dalla tradizione marxista genuina, avvalora una prima ipotesi: e cioè che l'interesse diffuso per gli studi linguistici avesse portato a una forma di mito, imperniato sul culto della personalità del Marr; al fanatismo; al bando di quanti non apparivano abbastanza ortodossi. L’ovvio disagio che ne derivava era in relazione proprio con la grande diffusione degli interessi linguistici. Non si trattava di disquisizioni teologiche che interessavano sparute schiere di dotti, ma di qualcosa che incideva sulla visione della vita e della società nuova. Che le conseguenze della tirannide marrista fossero
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state gravi anche al di fuori della cerchia degli specialisti è provato dalla frase perentoria (p. 62) cui noi plaudiamo: « nessuna scienza può svilupparsi e prosperare senza una lotta di opinioni, senza libertà di critica. »
        Accanto a questo primo indizio, non riesco a tacerne un secondo, forse temerario, associato ai temi della politica internazionale. La parentela delle lingue slave, secondo la descrizione classica, conduceva alla visione di un blocco primitivo unitario, dal quale la lingua russa si era staccata come ramo vigoroso e autorevole.
        L'uomo che aveva rinunciato alla visione della rivoluzione mondiale; che aveva tratto le conseguenze dall’avvento del socialismo limitato a un paese; che aveva pensato non a liquidare lo stato ma a rafforzarlo, non a disarmarlo, ma ad armarlo : non può non avere visto che il mito di un albero genealogico degli slavi, con una parte di tanto rilievo assegnata alla tradizione russa, poteva essere un elemento del gioco, per il quale al compito della rivoluzione subentrava quello della nazione-guida, guida in prima linea dei popoli slavi.

Giacomo Devoto