INDICE
pag. |
|
Avvertenza |
VII |
I. l'intuizione pura e il carattere lirico dell'arte |
1 |
II. intorno alla teoria della critica e storia letteraria |
|
I. Il torto e il diritto dell'estetismo |
33 |
II. Le antinomie della critica d'arte |
42 |
IlI. Esempio di critica estetizzante |
46 |
IV. Critica e storia letteraria |
51 |
V. La letteratura comme « espressione della società » |
56 |
VI. I fini dei poeti |
61 |
VII. Determinismo, psicologia e arte |
65 |
VIII. II plagio e la letteratura |
68 |
IX. La letteratura comparata |
73 |
X. Storia di temi e storia letteraria |
|
1. Il tema « Sofonista ». |
80 |
2. Il tema « Maria Stuarda » |
87 |
XI. Storia della letteratura e storia della cultura |
94 |
XlI. Poeti, letterati e produttori di letteratura |
106 |
XIII. Dispute di critica teatrale |
115 |
XIV. La storia della letteratura come arte e la prosa |
125 |
XV. Il giornalismo e la storia della letteratura |
131 |
XVI. A proposito di un sonetto del Tansillo |
136 |
III. Rettorica, grammatica e filosofia del linguaggio |
|
I. Di alcuni principi di sintassi e stilistica psicologiche del Gröber |
143 |
II. Le categorie rettoriche e il prof. Gröber |
156 |
III. Stile, ritmo, rima e altre cose |
163 |
IV. « Questa tavola rotonda è quadrata» |
172 |
177 |
|
VI. Estetica e Psicologia del linguaggio |
185 |
VII. La lingua universale |
190 |
VIII. La lingua unica primitiva |
198 |
IX. L' « Idioma gentile » |
203 |
X. Per una polemica sulla lingua |
215 |
XI. Le cattedre di Stilistica |
219 |
IV. INTORNO ALL' UNITÀ DELLE ARTI |
|
I. Di alcune difficoltà concernenti la storia artistica dell'architettura |
227 |
II. Una teoria della « macchia» |
236 |
III. Il padroneggiamento della tecnica |
247 |
IV. Il ritratto e la somiglianza |
256 |
V. Illustrazioni grafiche di opere poetiche |
262 |
VI. La storia artistica della « Madonna » |
265 |
V. concetti pseudoestetici |
|
I. L’umorismo |
275 |
II. Le definizioni del romanticismo |
285 |
VI. PER LA STORIA DELL' ESTETICA ITALIANA |
|
I. Francesco Patrizio e la critica della Rettorica antica |
297 |
II. I trattatisti italiani del Concettismo e Baltasar Gracian |
309 |
III. Un verso di Lucano nell' Estetica del Sei e Settecento |
346 |
IV. Un pensiero critico nuovo |
354 |
V. L'Estetica del Gravina |
360 |
VI. L'efficacia dell' Estetica italiana sulle origini dell'Estetica tedesca |
371 |
VII. Estetici italiani della seconda metà del Settecento |
381 |
VIII. Una storia dell' Estetica italiana |
401 |
VII. PER LA STORIA DELLA CRITICA LETTERARIA ITALIANA. |
|
I. Storia della Critica e storia dell' Estetica |
419 |
II. Storia della Critica e storia della Storia letteraria |
428 |
III. Storia della Critica e storia delle Critiche particolari |
437 |
IV. Giuseppe Baretti |
443 |
V. Di un giudizio romantico sulla letteratura classica italiana |
449 |
VI. Poesia germanica e poesia latina |
458 |
VIII. SCHERMAGLIE |
|
I. Questioni estetiche |
467 |
II. Antiestetica e antifilosofia |
473 |
III. Conoscenza intuitiva e attività estetica |
480 |
IV. La ricerca delle fonti: |
|
1. Prefazione a una miscellanea di « fonti » letterarie |
489 |
2. Noterella polemica |
493 |
INDICE DEI NOMI |
505 |
[190]
VII / LA LINGUA UNIVERSALE
L'idea di una lingua universale è la sublimazione del falso concetto, che si è avuto pel passato, e si ha ancora d'ordinario, circa il Iinguaggio. Questo falso concetto consiste nel credere che il linguaggio sia un congegno, che l'uomo si sia foggiato, per comunicare ai suoi simili il proprio pensiero. Secondo siffatto modo di vedere, il pensiero starebbe dapprima, nella mente delluomo, fuori del linguaggio: il linguaggio gli si aggiungerebbe poi, per atto pratico, in vista dell'utile e del comodo. E, poiché i congegni nascono rozzi e si perfezionano via via nel corso dei secoli, non è maraviglia che, assimilato a essi, iI parlare effettivo degli uomlni, il linguaggio, quale si è storicamente formato, appaia quasi un lavorare con istrumenti vecchi o, a dirittura, barbarici, riadattati alla meglio, ma sempre pesanti e incomodi; e sorga, perciò, il desiderio di surrogare a quei vecchi istrumenti, o di possedere accanto a essi, istrumento nuovo e costruito di sana pianta. Pel quale si fara tesoro, sì, delle esperienze secolari; ma si seguiranno criteri razionali, che permettano di raggiungere più facilmente, e meglio, lo scopo della comunicazione. I fucili a ripetizione hanno sostituito quelli a pietra; i treni-lampo, le vecchie diligenze: perché mai il linguaggio ultimo-modello non sostituirebbe il rappezzato neolatino, il frondoso tedesco e l'ibrido inglese?
[191]
Il falso concetto del linguaggio è evidente in tutti i vagheggiatori e promotori di una lingua universale; dal Cartesio e dal Leibniz, giù giù fino al dottor Zamenhof, inventore dell' Esperanto, e ai signori Couturat e Léau, membri della « Delegazione per l'adottamento di una lingua internazionale ausiliare», e autori della Histoire de la langue universelle[1]. Al Cartesio (come è noto) pareva cosa agevole costruire una lingua universale, dove si avesse un modo solo di declinare, di coniugare e di costruire le parole, e non fossero verbi difettivi o irregolari, « qui sont toutes choses venues de la corruption de l’usage », il dottor Zamenhof, fin dal tempo che compiva i suoi studi letterari al ginnasio di Varsavia, si convinse che « la complexité des grammaires naturelles était une richesse vaine et encombrante, et se mit à elaborer une grammaire simplifiée»[2]. I signori Couturat e Léau accettano, in proposito, la conclusione, a cui pervenne già, nel 1855, il Renouvier : che una lingua internazionale debba essere « empirique par son vocabulaire et philosophique (c'est-à-dire, rationnelle) par sa grammaire »[3]. Ed ecco che cosa essi pensano dei linguaggi esistenti: « toute langue littéraire est, plus ou moins, artificielle». E della poesia: « qu'y a-t-il de plus artificiel, en tout cas, que la poésie? et dans quel pays est-il naturel de parler en vers? »[4].
Innanzi a codeste affermazioni, si resta sbalorditi. Che il Cartesio e il Leibniz non avessero ancora intesa l'essenza del linguaggio, si spiega per le condizioni degli studi ai tempi loro. Ma, sulla fine del secolo decimonono o sui principi del ventesimo, sentire ripetere ancora che le lingue
[192]
sono irrazionali, che contengono elementi inutili, che possono essere semplificate per mezzo della logica, che la poesia è un fatto artificiale, è cosa non sopportabile. I moderni dissertatori intorno al linguaggio universale, che si valgono di concetti come quelli dei quali si è dato saggio, dovrebbero essere, a mio parere, non già ammessi alla discussione, ma rimandati, puramente e semplicemente, a studiare che cosa sia il linguaggio. E chiaro che, sulla Filosofia del linguaggio, essi non debbono avere mai meditato sul serio. L'hanno creduta facile, di quelle cognizioni che si posseggono come per buon senso naturale ; ed è, invece, difficile e di assai faticoso acquisto.
I promotori della lingua universale dichiarano, ormai, di avere affatto abbandonata l'antica pretesa di una lingua filosofica, rispondente ai concetti, èsattamente determinati, delle cose; quella lingua filosofica, della quale il Cartesio diceva, per l'appunto: « L’invention de cette langue dépend de la vraye philosophie ». E non hanno difficoltà a riconoscere che, non essendo ancora la scienza bella e fatta, e mutando, anzi, di continuo, una lingua di tal sorta è impossibile[5]. Ma, con ciò, non si è superato l'errore, il quale non nasceva già dal presupposto della scienza perfetta: la lingua desiderata sarebbe stata, certamente, tanto più perfetta quanto più perfetta la scienza che le servisse in base; ma avrebbe, anche nell' ipotesi di una scienza imperfetta, rappresentato pur sempre un progresso grande rispetto al Iinguaggio volgare, perché la scienza degli scienziati, imperfetta che sia, vale sempre meglio delle superstizioni del volgo. L'errore, invece, in quella idea di una lingua filosofica, era, né più né meno, il medesimo in cui s'incorre ora con l'idea della lingua universale; vale a dire, concepire il linguaggio come qual-
[193]
cosa d'estrinseco e di fissabile. Questo errore non è stato punto superato.
Supposti due individui, i quali abbiano le stessissime convinzioni intorno a un oggetto, non per ciò essi potranno mai parlare una lingua comune a entrambi, identica in entrambi. Ciascuno dei due parlerà a modo suo, e, cioè, in modo corrispondente alla propria psicologia e, quindi, alla propria fantasia; ciascuno, con certe immagini, certi suoni, certi giri di periodi, certi gesti e certe enfasi, che non possono essere identici alle immagini, ai suoni, ai periodi, ai gesti e alle enfasi, con cui si esprime I'altro. Il linguaggio, insomma, cioè, il parlare, è, nella sua realtà, spontaneo, individuale, variabile; e il linguaggio, che si domandava, il linguaggio comune, sarebbe dovuto essere artificiale, universale, fisso, negando cosi l'indole universale del linguaggio. E (si noti bene) la diversità del parlare secondo gl'individui e le situazioni psicologiche in cui ciascuno di essi si trova, non esclude il reciproco intendersi; perché intendere vuol dire, per I'appunto, adeguarsi alla psicologia altrui; movendo dalla propria e a questa tornando. Se gli uomini potessero parlare tutti allo stesso modo, sarebbero tutti identici; con che, non s'intenderebbero già meglio, ma si scioglierebbero, tutti insieme, nell'indistinto è il mondo non esisterebbe.
Per le ragioni che ho esposte o ricordate, l'idea di una lingua universale resterà sempre un'utopia, della specie più stolta, perché utopia del contradittorio. Essa non cesserà di esercitare uti certo fascino su qualche spirito irriflessivo; cosi come vi sarà sempre qualcuno che si domanderà perché mai, consistendo la musica in combinazioni di note, e la pittura in combinazioni di colori, e la poesia in combinazioni di parole, non si possano ottenere, meccanicamente, nuove e meravigliose musiche, pitture, poesie, mercé macchine combinatorie, facendo il meno di
[194]
quella rara e costosa materia prima, che si chiama la genialità dell'artista[6]. E come vi sarà sempre qualche fanciullo che si domanderà perché mai i popoli facciano le guerre, distruggendo pazzamente vite umane e riccheze con tanta fatica prodotte, laddove potrebbero decidere le loro contese con duelli singolari, al modo di quello degli Orazî e dei Curiazî, e degli altri, che non poterono mai avere effetto, tra Pietro d'Aragona e Carlo d'Angio, tra Francesco I e Carlo V.
Ma, ai giorni nostri, sembra che la ricerca del linguaggio universale abbia mutato carattere. Una lingua universale, o, come volentieri la chiamano, una « lingua internazionale sussidiaria », viene richiesta da politici e commercianti, da scienziati (di quelli che girano per tutti i congressi), da logici matematici (inventori di specifici pel retto e comodo pensare), e da altri di simigliante genia; e Ia richiesta è confortata dall'osservazione di certi fatti che già esistono e che si approssimano a quel che si desidera: quali le lingue franche o i sabir della costa mediterranea e di altri paesi; la fortuna e là diffusione, prima del Volapük, e ora dell'Esperanto; la crescente quantità di parole comuni, che si osserva nei linguaggi della civiltà europea; le terminologie e notazioni sclentifìche internazionali; e altrettali. Perché mai un autorevole consesso, come l'Accademìa delle accademie (bel nome, che pare modellato su quello del Cantico dei cantici), o altro
[195]
che sia composto di delegati dei vari Stati; non potrebbe fissare un complesso di segni fonici, scelti con pratico buon senso, e agevolare, con tale deliberato, la comunicazione dei pensieri tra persone di diverso linguaggio? Qual'è l'impossibilità intrinseca di questo desiderio? Non si vede.
Senza dubbio, l'enunciato desiderio non ha alcuna impossibilità intrinseca, e, anzi, si è già in parte effettuato, e si potrà effettuare in seguito anche più Iargamento. Ma, in ogni caso, ciò che si ottiene (ecco il punto importante), o non è lingua, o non è universale.
Mettere in corrispondenza certi suoni, arbitrariamente foggiati, con certe idee ed espressioni, è, non già, propriamente, parlare, ma formare una convenzione. Si può convenire, p. e., che ciò che gl'italiani chiamano «pane», e i francesi «pain », e i tedeschi - « brot », e gl'inglesi «bread », sia indicato col suono «pük »; ciò che si dice « voglio, je veux, ich will, I will », sia indicato col suono «ro »; onde «ro puk » si tradurrà, nelle rispettive lingue « io voglio un pezzo di pane ». Con questa convenzione, non si è data vita a nessun linguaggio: il linguaggio è l'uomo che parla, nell'atto che parla. La convenzione può avere pretese di universalità, ed essere universalmente imposta o universalmente accettata; ma I'aggettivo « universale» cerca, qui, invano, il sostantivo « linguaggio ».
Perché questo sostantivo sia al suo posto, perché si abbia linguaggio, è necessario che i vari individui, che compongono l'ipotetica società aderente alla convenzione, prendano a parlare dicendo: «ro puk», per dire che vogliono il pane. Ma non appena quella convenzione si traduce in linguaggio, ecco che cessa di essere convenzione, diventa un semplice dato naturale, un impressione psicologica, che lo spirito di ciascun parlante risente ed elabora a suo modo: un dato, il quale è entrato, con altri, nella psiche del parlante, che lo trasforma in linguaggio vivo, facendone la
[196]
sintesi estetica, insieme con le altre impressioni, che egualmente sono entrate in Iui. La convenzione cessa, per tal modo, di essere convenzione, perché si è individualizzata. In ciascun individuo, e in ciascun atto del parlare, quei suoni « ro puk» acquistano un particolare significato, o, ch'è lo stesso, una particolare sfumatura di signifìcato. Prima, si aveva l'universale, ma non la lingua, ora, si, ha bensi la lingua, ma non più l'universale.
Questa obiezione, che la parola convenuta perda la sua fissità, quando entra nell'uso vivo del parlare; che quel solido, per cosi dire, caduto nel flusso di un liquido, si liquefaccia anch'esso; - è stata mossa ai sostenitori della lingua universale, o è stata, in qualche modo, accennata, quando si è notato che la lingua universale sara variamente pronunciata dai varî individui, e che sarà alterata dai varî popoli, secondo le tendenze e i precedenti di ciascuno e secondo tutte le circostanze e vicende storiche[7].
I difensori della lingua universale, non avvertendo, forse, la gravità dell'obiezione, hanno risposto: che, ammesso pure che la pronunzia sia causa di alterazioni, la lingua universale resterà sempre utile per le comunicazioni scritti ; che le alterazioni temute non avranno luogo, come è provato da esperienze fatte col Volapük e con l'Esperanto; che la Iingua artificiale non sarà sottomessa agli stessi motivi di alterazione, operanti nelle lingue storiche, perché dovrà servire solo per certi determinati scambi e sarà frenata da una tradizione e da una letteratura di modelli classici; che le mutazioni, riconosciute opportune, potranno essere introdotte, cautamente, dall'autorità medesima, costitutrice di quel linguaggio; e cosi via[8]. Ma sono tutte risposte, le quali, come si vede, non giungono a eliminare I'obiezione in quel
[197]
che ha di sostanziale. Il vero è che nessuna parola è qualcosa di fissabile astrattamente, ma ciascuna attinge significato dalla connessione in cui si trova e da cui non è separabile se non per violenta mutilazione. E quel che accade per le parole delle cosi dette lingue naturali, accade egualmente per quelle, che hanno, sì, il loro motivo extralinguistico in una convenzione, ma il cui motivo linguistico è, come per tutte le altre, nella spontaneità e naturalità del parlare, ritraente le svariate e mutabili impressioni dell'animo umano. Non si tratta, dunque, di quelle sole alterazioni, che s'introdurrebbero, saltuartamente e accidentalmente, nel corso degli anni o dei secoli ; ma di quelle, continue, che s'introducono a ogni attimo.
La mutabilità incoercibile del linguaggio, e della convenzione divenuta che sia anch'essa linguaggio, non esclude, certamente, che la convenzione, tradotta in linguaggio, possa avere qualche utilità. Per certi scopi pratici, ciò che importa è non la fissità rigorosa, ma quella approssimativa, nella quale si trascurano le sfumature e si considera un espressione all'ingroso. Epperò, l'Esperanto, e altre convenzloni dello stesso genere, potranno avere la loro utilità, piccola o grande che sia, per certi tempi e per certi luoghi. Ridotta la cosa in questi limiti, essa è d'interesse e di competenza dei pratici, alle cure dei quali bisogna affidarla e lasciarla. Mà, dal punto di vista scientifìco, conviene insistere nell'affermazione che la cosi detta lingua universale si risolve in un processo, diviso in due stadi: il primo dei quali (convenzione) è universale, ma non è lingua; il secondo (parlare effettivo) è lingua, ma non pìù universaIe. Giacché al filosofo importa che l'umile questione pratica di un possibile espediente, atto ad agevolare certi generi di scambi spirituali, non faccia sorgere, o non rafforzi, idee false (e già troppe ne vanno in giro) intorno alla natura del linguaggio.
[1] Paris, Hachette, 1903, 8° gr., pp. xxx-576.
[2] Op. cit., p. 305.
[3] Op. cit., p. 514.
[4] Op. cit., p. 566.
[5] Op. cit., pp. 113-115, 548.
[6] Pur troppo, il grande Leibniz, in conseguenza, per l’appunto, sue idee erronee circa il linguaggio, fu uno di questi «qualcuni» e sognò di potere comporre con metodo infallibile e quasi dimostrativo poemi e canti «très beaux» ; ai modo stesso che un predecessore di lui, il padre Kircher, nella Musurgia pretendeva insegnare l'arte di comporre ari e senza sapere di musica ! Si veda La logique de Leibniz, d'après des documents inédits, par L. COUTURAT (Paris, Alcan, 1901), p. 63.
[7] Op. cit., pp. 559 e 565. Cfr. la rivista Leonardo, fasc. di novembre 1904, p. 37.
[8] Op. cit., pp. 559-569.